Quando lo sport fa male

stanchezza

Uno studio scientifico dopo l’ altro dimostra che una vita attiva diminuisce fra il 50 e l’ 80 per cento il rischio di un attacco cardiaco. Anzi, l’ elenco che l’ attività fisica aiuta a prevenire è molto più lungo: infarto, cancro, diabete, malattie del fegato e dei reni, osteoporosi e anche disturbi cerebrali come l’ Alzheimer e la depressione. Senza contare l’ impagabile effetto anti-stress, quella meravigliosa sensazione che, dopo un’ ora di corsa, una sgambata in bicicletta, un po’ di scambi ben tirati a tennis vi fa sentire i muscoli incordati e la mente sgombra. Il rischio è proprio l’ opposto: in quella quota sedentaria di italiani – il 41 per cento e in crescita costante – che non muove mai neanche un muscolo, con grave pregiudizio della salute futura.

Il problema è la particolare interpretazione che, dello sport, dà una larga fetta di quel 30 per cento di italiani che, regolarmente o saltuariamente, si muove. È una interpretazione che non dovrebbe stupire chi, dopo tanti anni, ha imparato a conoscerli. I baby boomers – la generazione del ‘ 68 e del ‘ 77, degli anni Ottanta “da bere”, dell’ ansia da consumo elettronico – non si smentiscono mai. E lo sport d’ ogni giorno, in Italia,è in larga misura, affar loro. Al Censis risultano un milione e mezzo di praticanti di calcetto, due milioni, rispettivamente, per l’ atletica leggera e il ciclismo, un milione per il tennis. Più o meno, il 30 per cento di questi praticanti ha più di 45 anni. Ma questo ci dice ancora poco. Non ci interessa un’ attività occasionale, ma lo sport, praticato con impegno e regolarità. E allora, guardiamo i dati del Coni: i numeri sono più piccoli, ma più significativi. Perché chi si iscrive ad una federazione fa sport sul serio. Per fare un torneo ufficiale di tennis (quelli che danno classifica) bisogna essere iscritti alla Fit. Per fare una corsa a piedi, o in bicicletta, con tanto di numero di gara e cronometristi, bisogna essere iscritti alla Fidal o alla Fci. Ed ecco avanzare i baby boomers. La Federazione dell’ atletica leggera è quella delle grandi leggende olimpiche, la federazione di Usain Bolt o di Jonathan Edwards: la gioventù alla massima potenza. Ma un quarto dei 160 mila iscritti alla Fidal ha più di 45 anni. Nella corsa su strada anche di più. Gianni Giacinti, che ne presiede una, la Rcf, valuta che, nelle società podistiche, il 60-65 per cento degli iscritti viaggi sopra i 45 anni. Alla Federazione ciclistica, 15 mila iscritti su 40 mila sono a ridosso dei 50 o oltre. Alla Federazione tennis, su 229 mila iscritti, un quarto ha più di 50 anni e un altro 17 per cento ha superato i 40. Mentre i figli si ammucchiano davanti alle playstation, i padri affollano piste, strade, campetti, ansiosi di competere e gareggiare.

Lo sport italiano, lo sport popolare, di massa o, come si dice, “di base”, ha i capelli grigi. Sotto quei capelli grigi, c’ è una generazione che, di regola, spreme le proprie passioni fino all’ ultima goccia. “Il motto è: domenica non mi risparmio” dice Daniele Pierobon, contitolare di uno studio di fisioterapia, a ridosso di Villa Pamphili. Il 30/40 per cento dei suoi pazienti ha superato i 45 anni. “Vengono con dolori da sovraccarico: tendine rotuleo, tendine d’ Achille, ginocchio, lombosacrale. Però non si fermano mai. Se proprio non mi blocco, dicono, dal dottore non ci vado”. Perché interrompere l’ allenamento è una resa, una sconfitta. E l’ impegno è serio. Un corridore “amatore” che sta preparando una gara (e, di solito, sta sempre preparando una gara) si allena 4-5 volte a settimana. Un giorno, fa tre volte 3 chilometri. Un altro, 10 volte 500 metri. Il terzo giorno 1012 chilometri a ritmo gara. E, infine, il “lungo”: se ha in programma una maratona, anche 28 chilometri. “Sono ritmi severi, paragonabili a quelli degli atleti veri e propri”, osserva Claudio Gallozzi, specialista in medicina dello sport. In effetti, velocità e risultati sono diversi, ma, in linea di principio, questo è quello che fanno campioni come Bekele e Baldini. Ed è l’ orgoglio di fare “quello che fa Baldini” e di correre, come lui, i 42 chilometri e rotti della maratona che spinge il corridore. “Il problema – osserva Pierobon – è che un atleta è come una macchina di Formula Uno: se anche una piccola cosa si inceppa, interviene una squadra di massaggiatori, fisioterapisti, medici, radiologi. L’ amatore, invece, si arrangia e tira finché può”.

Nell’ intepretazione vitalistica del baby boomer, del resto, lo sport è una sorta di corrispettivo diurno del Viagra serale: la prova, quotidianamente ripetuta, della propria capacità, della propria forza. Non proprio della sua immortalità, ma, almeno, di una efficienza permanente, immutabile. “Non si rendono conto – dice Pierobon – che, con l’ età, aumenta fisiologicamente anche la rigidità. Se, l’ anno scorso, facevo ad un certo ritmo 3 chilometri, può darsi che, quest’ anno, abbia birra, a quella velocità, solo per 2. Ma io ne corro tre lo stesso. E mi rompo”. Dal punto di vista medico, questo sportivo attempato è, probabilmente, un inedito. Un atleta si sottopone, normalmente, alla sua dieta severa di allenamenti per i 10-15 anni della carriera agonistica. L’ amatore, anche per 30 e oltre. Secondo Gallozzi, tuttavia, questo non è il problema. “L’ usura – dice – è un fattore soprattutto individuale. Determinante, piuttosto, per un corridore, è la superficie su cui si allena: sterrato, pista, erba, asfalto”. La questione vera, per Gallozzi, è un’ altra. “Ed è un fatto, soprattutto, culturale. Molti di loro cominciano tardi, verso i 50 anni. E dovrebbero preoccuparsi di adattare il loro fisico all’ impegno cui si sottopongono. Invece, pretendono di fare la maratona in 2-3 anni. Scaricano le tabelle di allenamento da Internet e via. Ci vorrebbero prudenza e buon senso”. Gallozzi si occupa di ossa e muscoli. Ma la questione dell’ adattamento di chi comincia tardi è anche più seria.

“Corsa e ciclismo – dice Pino D’ Amico, cardiologo e medico sportivo – sono attività ad alto impegno dal punto di vista cardiovascolare. Se non sono ben modulate, sono guai”. Guai veri: statisticamente, ogni anno, su mille corridori si registrano 2,5 “morti improvvise”. Ma, anche se l’ infarto non arriva, “tutti corrono grossi rischi, se i carichi di allenamento sono troppo elevati”. Chi si iscrive ad una federazione, si sottopone ad una visita medica di controllo, che ne accerta l’ idoneità fisica. “Ma questo – osserva D’ Amico – è solo un passaggio iniziale”. Il fatto che posso correre, non significa anche che posso fare 3 volte i 3 mila a 4 minuti a chilometro, anziché 5. “La fase due è prendere quella tabella scaricata da Internet e confrontarla con il proprio dottore, per vedere se me la posso permettere”. “L’ adattamento cardiovascolare, a 50 anni, infatti, non è facile. Anzitutto – continua D’ Amico – a quell’ età è frequente che ci siano precondizioni di rischio: pressione, glicemia eccetera. In secondo luogo, impegnando il cuore ad alta intensità c’ è il pericolo che il cuore si adatti, ma in modo patologico. Invece di allungarsi, mantenendo inalterata la cavità interna, è facile che il sovraesercizio fisico ispessisca, invece, il muscolo: da 10-11 millimetri anche a 13-14. Il muscolo si ispessisce, riducendo la cavità interna e la pompa funziona meno”. Ascoltando Gallozzi e Pierobon si capisce perché molti baby boomers, con il tempo, abbiano deciso di passare dalla corsa alla bicicletta, meno impegnativa per ossa e articolazioni. Ma, sentendo D’ Amico, si capisce anche che, al fondo, il problema è un altro. Chiamiamola “ansia da prestazione”. E qui, soprattutto per gli sportivi della bicicletta, si nascondono insidie anche maggiori. Dati non ce ne sono, ma, secondo gli esperti, circolano, ai margini delle corse, più confezioni di integratori (quelli del doping) di quanti giustificherebbe anche la platea potenziale degli atleti veri e propri. La capacità di fermarsi quando bisogna, lo sapevamo già, non è un tratto caratteristico dei baby boomers.

[Fonte http://www.repubblica.it/sport/running/salute-e-alimentazione/2017/01/04/news/sport_salute_baby_boomers-155404015/]