«Immunità» per chi usa i defibrillatori semi-automatici
(di Ruggiero Colella per Corriere.it) – Secondo le statistiche internazionali oggi solo nel 15% dei casi di arresto cardiaco la rianimazione cardiopolmonare viene iniziata dai testimoni prima dell’arrivo dei soccorsi. Se la percentuale aumentasse fino al 50-60% si potrebbero salvare 100 mila vite ogni anno. E ancora: la media nazionale di quanti sopravvivono a un attacco cardiaco resta ferma a meno del 5%. Il tasso di sopravvivenza registrato nei luoghi dove invece è presente una rete di defibrillatori semiautomatici esterni (Dae) accessibili e utilizzabili da ogni cittadino, senza bisogno cioè di una formazione specifica, sale ad appena il 36%. Perché? Gli studi internazionali non aiutano a trovare una risposta. Una revisione sistematica della letteratura scientifica in materia, condotta nel Regno Unito nel 2017, ha portato a identificare una serie di barriere per i cosiddetti Pad (Public access defibrillation, cioè i programmi di defibrillazione precoce di comunità). Ma per ammissione stessa degli autori, la scarsa qualità degli studi esaminati non porta a conclusioni tali da poter fornire indicazioni pratiche. Tra gli «ostacoli» individuati, comunque, figurano la paura di non saper utilizzare i defibrillatori o di non farlo in maniera corretta; il timore di provocare danni a chi viene soccorso e anche quello delle eventuali conseguenze legali.
In Italia
E in Italia che cosa succede? La nostra legislazione prevede che i soccorritori non professionisti possano utilizzare i defibrillatori solo dopo un corso di addestramento certificato. Tuttavia, anche se il soccorritore non avesse seguito un corso di formazione all’uso del Dae, le sue responsabilità nei confronti della vittima sono coperte dall’articolo 54 del codice penale che protegge chi provochi eventuali danni in stato di necessità. Eppure di fronte a una persona caduta a terra per un arresto cardiaco spesso ci si tira indietro e non si interviene per diffidenza o inconsapevolezza. Proprio per cercare di rimuovere i timori legati a eventuali conseguenze legali l’Italian Resuscitation Council (Irc), associazione impegnata in attività di ricerca medico-scientifica e formazione nel campo della rianimazione cardiopolmonare, chiama a raccolta tutte le associazioni scientifiche e di volontariato coinvolte e i politici per discutere assieme una proposta: «estendere la salvaguardia giuridica per il soccorritore, implicita nello stato di necessità,verso tutto ciò che può accadere sulla scena del soccorso e verso chi vi è coinvolto», dice Andrea Scapigliati, presidente di Irc che sulla questione ha chiesto un parere giuridico.
Legge del «Buon Samaritano»
Si tratterebbe in sostanza di introdurre una «legge del Buon Samaritano», come viene definita nei Paesi di diritto anglosassone, cioè una specie di «immunità» da conseguenze legali di tipo civile o penale per chi si trovasse a soccorrere occasionalmente e senza preparazione specifica una vittima di arresto cardiaco. Del resto, il Dae cioè l’apparecchio salva-vita in grado di interrompere l’aritmia che sta bloccando la normale attività cardiaca è sicuro, guida il soccorritore stesso con istruzioni vocali e visive, permettendo la scarica solo se effettivamente necessaria e non ha mai fatto registrare, per quanto noto dalla letteratura scientifica, incidenti significativi. «Chiunque si trovi ad avere la possibilità di utilizzare un Dae deve sentirsi libero da qualsiasi responsabilità legale perché ha la possibilità di salvare una vita» afferma Scapigliati che però puntualizza:«Siamo convinti che la formazione diffusa rimanga uno snodo centrale per motivare i possibili soccorritori ad eseguire tutte le manovre della rianimazione iniziale, cosa che non è in grado di fare la semplice liberalizzazione dell’uso del Dae. Un cittadino comune si sente motivato ad intervenire soprattutto attraverso l’acquisizione di consapevolezza e competenze. Pertanto, l’informazione e la formazione rimangono un caposaldo nella lotta all’arresto cardiaco».
La proposta
La proposta di mettersi attorno a un tavolo e identificare una strategia comune trova d’accordo Daniela Aschieri, presidente dell’associazione Progetto Vita Piacenza, il primo programma di defibrillazione precoce di comunità in Europa: «Il 24 maggio prossimo abbiamo invitato, insiema a Irc, i centri di formazione e le società scientifiche a discutere proprio di questo», dice. Nel 2017, Progetto Vita e altre dieci associazioni avevano firmato una petizione alle massime autorità dello Stato per introdurre appunto la legge del Buon Samaritano. La norma avrebbe dovuto contenere una semplice frase aggiunta all’articolo 1, comma 1 della legge 120 del 3 aprile 2001 ovvero: «È consentito l’uso del defibrillatore semiautomatico in sede extra ospedaliera anche al personale sanitario non medico, nonché al personale non sanitario che abbia ricevuto una formazione specifica nelle attività di rianimazione cardio-polmonare, ovvero in caso di necessità ed in assenza di personale addestrato, chiunque può utilizzare un defibrillatore automatico o semiautomatico esterno (in corsivo la frase in aggiunta, ndr) ». Insomma nella visione di Progetto Vita si dovrebbe andare verso una completa liberalizzazione dell’uso dei Dae. «In un percorso di crescita culturale un ruolo importante può essere svolto da una semplificazione legislativa nell’utilizzo del defibrillatore automatico esterno. Però penso sia prematuro addestrare il laico al solo utilizzo del Dae» conclude Vincenzo Castelli, presidente dell’associazione Giorgio Castelli onlus.