Il gomito non è solo del tennista
Si chiama gomito del tennista, perché le prime diagnosi furono fatte agli sportivi. Ma l’epicondilite colpisce anche chi con la racchetta ha poco a che fare. Il comune denominatore è l’uso eccessivo dell’avambraccio per carico funzionale, come può essere il gioco del tennis, o movimenti continui e ripetuti di alcune professioni. L’elenco è lungo. Tra gli sport il golf e la scherma. E tra le professioni l’imbianchino, il cuoco, il musicista, la casalinga, il barista che sta alla macchina del caffè e chi al computer utilizza ripetutamente il mouse. Ma anche i politici, com’è emerso da un’indagine americana, perché trascorrono molto tempo stringendo mani. In ogni caso il risultato finale non cambia. A lungo andare si verifica un progressivo indebolimento o degenerazione di quei tendini che permettono l’estensione del polso e delle dita.
I sintomi sono chiari: dolore al gomito intenso, zona gonfia e dolente e ogni sforzo diventa impossibile, persino impugnare il ferro da stiro oppure un cacciavite. «La diagnosi di solito non richiede particolari esami – interviene Valerio Sansone, direttore della Clinica Ortopedica del Galeazzi Irccs di Milano – il primo controllo consiste nel premere leggermente sulla parte esterna del gomito. Se è epicondilite, fa male. L’altra verifica è il test di Cozen: a gomito flesso si chiede al paziente di estendere il braccio, mentre il medico ne contrasta il movimento bloccando il polso. Anche in questo caso, si scatena il dolore. L’ultimo, che si può fare anche a casa come autotest, consiste nell’impugnare una sedia e sollevarla, cosa impossibile perché manca la forza e si ha dolore».
La prima cura è un tutore, simile a un bracciale, che stabilizza il polso e scarica il lavoro dei tendini. È necessario però sospendere il movimento che ha scatenato l’epicondilite, per far sì che si attivino i processi riparativi. «Se nell’arco di un paio di settimane non ci sono miglioramenti non perdiamo altro tempo – dice Sansone – le soluzioni sono diverse, tutte valide. Le ultime arrivate sono le infiltrazioni di fattori di crescita o di acido ialuronico. Per entrambe ci sono buoni risultati, validati da studi clinici. Oppure un ciclo di onde d’urto: questa è la tecnica usata da maggior tempo per l’efficacia nella stimolazione dei processi rigenerativi».
No invece alle infiltrazioni di cortisone. È vero che al momento riducono tutti i sintomi, ma alla lunga indeboliscono il tendine, con un peggioramento dei disturbi. «In questa fase è basilare il compito del fisioterapista – aggiunge Davide Zai Tornese, responsabile Riabilitazione sportiva del Galeazzi – e il lavoro è duplice. Da una parte è necessario correggere i movimenti che hanno scatenato l’epicondilite, eventualmente modificando l’attrezzo da lavoro. Dall’altra, impostare e ripetere più volte al giorno esercizi per rinforzare i muscoli dell’avambraccio». L’intervento chirurgico è riservato a pochissimi e selezionati casi, circa il 5%. «La tecnica più recente – continua Sansone – consiste nell’asportare solo la parte di tendine degenerato. Quindi si eseguono dei microfori nell’osso sottostante per forzare l’attivazione del processo rigenerativo e far sì che il tendine si ripari naturalmente ». Dopo l’intervento tutore e fisioterapia, senza sovraccaricare il gomito e con esercizi di stretching per agevolare i tempi di recupero. (Repubblica.it)